Novità del PIME

Mondo e Missione

Camminare insieme, vicini e lontani (ven, 19 apr 2024)
Gli ultimi mesi sono stati ricchi di visite di amici e colleghi: «Che bello poter condividere quello che facciamo per i nostri malati, e anche le nostre vite, senza paura di farci trovare piccoli» I giorni invernali sono davvero speciali. Ci permettono di tirare un po’ il fiato sul gran caldo che spesso ci opprime qui in Bangladesh. E poi quest’anno il freddo non è stato troppo pesante. Sono stati giorni contrassegnati anche da visite di tanti amici italiani che approfittano delle ferie invernali per venire a condividere con noi un po’ della nostra vita. È bello poter accogliere persone che vengono per la prima volta nella nostra missione e quest’anno, in modo speciale, è stato un dono poter avere con noi amici che ci aiutano a distanza come Franco, Luisella, Tina. E anche padre Daniele Criscione del Pime e Michelle che sono arrivati sin qui dagli Stati Uniti. Ci sono anche medici italiani, che da anni e con fedeltà tornano per dare una mano sia qui da noi, al Damien Hospital, sia nell’ospedale gestito dai missionari saveriani e dalle suore di Maria Bambina. E così io posso permettermi un po’ di confronto con colleghi e amici che sempre sono disposti ad aiutarmi. Sono davvero belle le amicizie che si consolidano o che nascono successivamente! Sono felice di accogliere ogni persona che desidera entrare nelle nostre case e nel nostro ospedale e condividere con ciascuna di loro il nostro servizio quotidiano ai pazienti. Molto spesso questi nostri ospiti ci servono anche da “specchio”: mi fanno ricordare la bellezza del donarsi ai nostri ammalati, ma anche lo stile e l’atteggiamento che forse a volte danno per scontati e che invece possono essere cambiati o rimodellati. I loro sono spesso occhi commossi che guardano con stupore quello che facciamo e che noi invece consideriamo così quotidiano e “normale”; occhi che non si stancano di cercare nel profondo; occhi che spesso brillano di lacrime perché vedono cose inaccettabili; occhi che scrutano ogni nostro movimento, atteggiamento, parola… Che bello poter condividere quello che facciamo per i nostri pazienti! Che bello poter condividere anche le nostre vite, le nostre relazioni, senza paura di farci trovare piccoli, senza paura di mostrarci poveri come le persone che siamo qui a servire. A volte non sono capace di risolvere i problemi della gente, a volte mi devo fermare di fronte alla mancanza di mezzi di questo Paese che non mi permette di agire come vorrei. E però si va avanti, con i limiti del contesto e anche con i nostri limiti. Dico grazie a questi amici, con i quali ho trascorso giorni belli di condivisione profonda e unica. Abbiamo scoperto insieme i colori del Vangelo in questo Paese, li abbiamo nel cuore e continuiamo a farcene dono prezioso. So che questi amici ci portano poi con loro in Italia e nel mondo, con i loro racconti e la loro testimonianza. Sono amicizie che nascono cosi, perché sono volute dal Padre nostro che non cessa di mostrarci la sua tenerezza e il desiderio di non lasciarci mai soli. Anime e cuori che anche a distanza desiderano camminare ancora insieme.  L'articolo Camminare insieme, vicini e lontani sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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Donne nella Chiesa: suor Regina parla al Consiglio dei cardinali (Thu, 18 Apr 2024)
Suor Regina da Costa Pedro, missionaria dell’Immacolata e direttrice delle Pontificie opere missionarie (Pom) del Brasile, è intervenuta al C9: «In questi incontri, il Papa e i cardinali non parlano di donne, ma le ascoltano e si lasciano sfidare» La direttrice delle Pontificie opere missionarie (Pom) del Brasile, suor Regina da Costa Pedro, missionaria dell’Immacolata, è intervenuta lunedì 15 aprile in Vaticano, alla seconda sessione di lavori del Consiglio dei cardinali (C9), alla quale ha partecipato anche Papa Francesco. Insieme a lei, altre due donne: Stella Morra, docente di teologia fondamentale, e suor Linda Pocher, docente di dogmatica, presso il Collegio Auxilum, delle Salesiane. L’incontro aveva lo scopo di dare voce a figure femminili provenienti da diverse parti del mondo per riflettere sulla presenza e sul ruolo delle donne nella Chiesa. Suor Regina, in particolare, ha insistito sul fatto che – come spesso ripete Papa Francesco – siamo di fronte a un cambio d’epoca non a un’epoca di cambiamenti. Questo modifica molto anche la prospettiva rispetto al rapporto tra Chiesa e cultura. Suor Regina ha fatto riferimento a due immagini bibliche evocate da suor Linda Porcher: quella del naufragio della barca di Paolo, negli Atti degli Apostoli, in cui la nave affonda, ma «nulla andrà perduto»; e quella del versetto di Luca 24,5 in cui di fronte al tempio di Gerusalemme, Gesù ricorda che «verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». «Queste immagini – ha commentato suor Regina – ci dicono che, in questo momento di radicale cambiamento culturale, spesso abbiamo la sensazione che nulla resisterà. Ma appare una realtà nuova, poiché Dio guida la storia verso la salvezza». Durante l’incontro si è tenuto un momento di dialogo con i cardinali sulla presenza delle donne nella Chiesa e sui rapporti culturali e storici nelle varie realtà. I cardinali hanno condiviso le loro esperienze, presentando progressi e resistenze rispetto a questo tema, ed esprimendo un sostanziale consenso sulla necessità di cambiamenti. «Dopo i nostri interventi – ha raccontato la missionaria dell’Immacolata – c’è stato un momento di discussione e il Papa ci ha posto delle domande a cui abbiamo risposto, in un dialogo che è durato tutta la mattinata. La cosa più importante da sottolineare è che questa pratica è assolutamente nuova: cinque incontri, in cui i cardinali e il Papa ascoltano le donne. Non parlano di donne, ma ascoltano le donne parlare dei propri problemi e si lasciano sfidare», ha sottolineato suor Regina. La missionaria, in particolare, ha fatto riferimento anche al testo biblico della donna cananea (Mt 15,21-28) che incontra Gesù e viene da lui ascoltata. «Quella donna ha insistito ed è stata ascoltata da Gesù. Questo momento che stiamo vivendo sembra riproporre l’esperienza della donna cananea: essere donne che si fanno ascoltare e che portano il grido e la voce di tante altre donne», ha concluso suor Regina. Il Consiglio dei Cardinali (C9) Il Consiglio cardinalizio, a seguito del rinnovo dell’organismo da parte del Papa il 7 marzo 2023, è composto da 9 cardinali. Di qui l’appellativo C9. Ne fanno parte: Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano; Fernando Vérgez Alzaga, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano; Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa; Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay; Seán Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston; Juan José Omella Omella, arcivescovo di Barcellona; Gérald Lacroix, arcivescovo di Québec; Jean-Claude Hollerich, arcivescovo di Lussemburgo; Sérgio da Rocha, arcivescovo di São Salvador da Bahia. Il segretario è dom Marco Mellino, vescovo titolare di Cresima. Il 24 aprile 2023 si è svolta la prima riunione del nuovo C9. Il Consiglio è stato istituito da Papa Francesco il 28 settembre 2013, con il compito di aiutarlo nel governo della Chiesa universale e di studiare un progetto di revisione della Curia romana, quest’ultimo portato avanti anche con la nuova Costituzione apostolica Praedicate Evangelium, pubblicata il 19 marzo 2022. Il primo incontro del C9 si è tenuto il 1° ottobre 2013.  L'articolo Donne nella Chiesa: suor Regina parla al Consiglio dei cardinali sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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Sudan: la guerra che nessuno vuole vedere (Wed, 17 Apr 2024)
Un anno dopo l’inizio del conflitto, l’Onu definisce la situazione sudanese «uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente». Migliaia di morti e quasi 9 milioni di persone costrette a lasciare le loro case. Ma nessuno ne parla. E nessuno interviene A un anno dall’inizio della guerra, scoppiata a metà aprile 2023, la situazione in Sudan è catastrofica e apparentemente senza vie d’uscita. Le Nazioni Unite parlano di almeno 15 mila morti, ma il dato è probabilmente sottostimato, e sono milioni i civili che si trovano in condizioni di estremo bisogno: tra questi, più di 730 mila bambini malnutriti. Ma il dato più drammatico riguarda il numero record di profughi e sfollati che sono ormai quasi 9 milioni, secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr). La maggior parte di questi (più di 6 milioni) sono sfollati interni, altri 2 milioni hanno trovato riparo nei Paesi confinanti, specialmente in Ciad, Egitto e Sud Sudan. Non solo: quasi 20 milioni di minori non vanno a scuola da un anno, mentre sono 25 milioni le persone che necessitano di assistenza umanitaria urgente, perché rischiano di morire di fame o per le pessime condizioni igienico-sanitarie, anche perché solo un terzo degli ospedali è attualmente funzionante. Oltre ai bambini, anche le donne sono tra le categorie più vulnerabili e moltissime hanno subito violenza. Quello sudanese è «uno dei peggiori disastri umanitari della storia recente», affermano le Nazioni Unite, ma anche una delle crisi meno mediatizzate. Il conflitto scoppiato lo scorso anno vede contrapporti l’esercito sudanese del generale Abdel Fattah al Burhan e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces (Rsf), guidato da Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemedti). Quest’ultimo si era rifiutato, a fine 2022, di integrare le proprie milizie nell’esercito regolare. Dopo i primi drammatici scontri avvenuto nella capitale Karthoum, le violenze sono poi dilagate in altre zone del Paese. In particolare, la regione del Darfur è tornata a essere al centro di scontri pesantissimi anche a causa degli interessi legati allo sfruttamento delle miniere d’oro da parte delle Rsf, che discendono dai famigerati janjawid, già in passato responsabili di stragi e atrocità proprio in questa regione. In risposta, l’esercito regolare ha iniziato a bombardare tutti i territori controllati dalle milizie, provocando moltissime vittime civili. Il Darfur oggi è la regione con il maggior numero di sfollati interni (più di 2 milioni e mezzo secondo l’Unhcr). La scorsa settimana altre 5-7 mila persone sono dovute fuggire da El-Fasher, a causa di nuovi attacchi, condannati anche del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres: «Due generali che hanno deciso di passare alle armi e fino a ora hanno ostacolato qualsiasi tentativo di mediazione diplomatica». Intanto, continua l’esodo senza fine soprattutto di donne e bambini. Nel corso dei mesi, la guerra si è fatta sempre più cruenta. Le Rsf hanno avuto sin dall’inizio il supporto del gruppo Wagner russo e degli Emirati Arabi Uniti, mentre l’esercito sudanese è sostenuto dall’Egitto. Dopo alcuni tentativi di tregua, soprattutto all’inizio del conflitto – peraltro quasi sempre non rispettati -, la situazione è peggiorata drasticamente. Tra le conseguenze, la mancanza di elettricità, che ha messo particolarmente in difficoltà gli ospedali. I pochi ancora funzionanti riescono a malapena a occuparsi dei feriti di guerra. Dal 17 marzo, però, Emergency è riuscita ad aprire un ambulatorio pediatrico nella capitale, all’interno del Centro “Salam” di cardiochirurgia, per dare un supporto alla cura dei bambini. Si tratta di punto di svolta importante dopo che l’associazione era stata costretta a chiudere i centri di Mayo, Nyala e Port Sudan all’inizio della guerra. L’emergenza però non riguarda solo la gestione interna degli ospedali, ma anche la mancanza di rifornimenti e di medicinali che dovrebbero giungere nel Paese via mare. Le recenti minacce e gli attacchi nel Mar Rosso da parte degli houthi dello Yemen hanno ulteriormente complicato la situazione e bloccato le navi che trasportano le forniture. All’inizio di marzo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto nuovamente un immediato cessate-il-fuoco per il Ramadan e di consentire l’accesso agli aiuti umanitari. Purtroppo però le due parti non hanno trovato un accordo. Il vicedirettore esecutivo del Programma alimentare mondiale (Wfp), Carl Skau, ha dichiarato che sono urgentemente necessari sforzi comuni da parte della comunità internazionale per contrastare la crisi alimentare ed evitare che diventi la più grave al mondo. Sinora, però, a fronte di un piano di aiuti stimato a 2,7 miliardi di dollari, è stato raccolto solo il 6%. A un anno dall’inizio del conflitto, dunque, la sua fine sembra ancora lontana e imprevedibile. Le violazioni del diritto internazionale denunciate in seguito alle violenze commesse dalle parti belligeranti esigono immediata attenzione e risposta. Così come la reazione alla gravissima carestia, dovuta anche all’interruzione delle attività agricole, che potrebbe causare altre migliaia di vittime. Nella Conferenza tenutasi il 15 aprile a Parigi, l’Unione Europea ha dichiarato che si impegnerà a raccogliere 2 miliardi di euro da stanziare per un nuovo piano di aiuti in Sudan. All’inizio della Conferenza, la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha dichiarato che «insieme possiamo evitare una terribile catastrofe alimentare, ma solo se agiamo subito».  L'articolo Sudan: la guerra che nessuno vuole vedere sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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Per un cristianesimo africano (Wed, 17 Apr 2024)
Autonomia economica e autonomia di pensiero. Sono i presupposti per affrontare le grandi sfide che la Chiesa d’Africa si trova a vivere oggi. Parla il vice rettore dell’Università cattolica dell’Africa occidentale, padre Benjamin Akotia Inculturazione, identità, autonomia, giovani, sinodalità, omosessualità… È un fiume in piena padre Benjamin Akotia quando si tratta di riflettere sui temi e sulle sfide che la Chiesa africana si trova a vivere oggi. Con uno sguardo da dentro e da fuori. Padre Akotia, infatti, è originario del Togo, ma è abituato a discutere e a confrontarsi a cavallo fra due continenti: quello di origine, l’Africa, e quello in cui ha studiato e dove spesso torna, l’Europa. Classe 1965, seminarista in Italia, è stato ordinato sacerdote a Lodi e ha proseguito gli studi in Sacra Scrittura e Antropologia a Strasburgo, dove ha conseguito entrambe le lauree. Decano della facoltà di Teologia dell’Università cattolica dell’Africa Occidentale (Ucao), con sede ad Abidjan, in Costa d’Avorio da febbraio 2023 ne è diventato vice rettore. Ma padre Akotia resta un viaggiatore, nei fatti e nel pensiero. E dunque, viene spontaneo affrontare innanzitutto il tema dell’inculturazione, una questione centrale nel primo Sinodo dei vescovi per l’Africa nel 1994, così come nelle riflessioni e nelle pratiche di quegli anni, ma che successivamente sembra essersi un po’ “persa”. È proprio così padre Benjamin? «Quand’ero seminarista e quando poi sono diventato prete si parlava molto di inculturazione e si facevano tanti sforzi anche per introdurre elementi nuovi nella liturgia. L’inculturazione, però, non sembra più essere la sfida di oggi. Anzi, vedo un movimento contrario. Si cerca paradossalmente di assomigliare di più all’Occidente. E la cosa è preoccupante, anche perché tanti sforzi si stanno perdendo. La generazione che mi ha preceduto e anche la mia hanno avuto un confronto diretto con i missionari. L’inculturazione era vissuta anche come ricerca di un’identità. Oggi ho l’impressione che ci si preoccupi di più di fare come fanno tutti: nelle nuove generazioni di preti, anche in Africa, vedo un ritorno al tradizionalismo o forse una certa superficialità e pigrizia. Non ci sono più spinte, neppure per rivendicare di essere se stessi. È come se, invece di andare dal sarto per farsi fare un vestito su misura, se ne compri uno già fatto, magari di seconda mano». Questa ricerca di identità, però, sembra emergere più attraverso l’opposizione all’Occidente che attraverso dinamiche propositive e innovative… «Il sentimento anti occidentale a volte è un modo per esprimere il fatto che non ci si vuole più sentire inferiori, che non si accettano più le lezioni degli altri. Ma non nel modo giusto. Pensiamo di essere alla pari perché sappiamo fare quello che fanno gli europei. È un problema di riflessione su noi stessi. Chi siamo veramente? In che cosa siamo capaci? Che cosa possiamo portare di autenticamente nostro?». Anche dal punto di vista teologico faticano a emergere figure o scuole come ce ne sono state in passato. «Nelle università, anche alcuni grandi del passato come Jean Marc Ela o Engelbert Mveng e altri ancora vengono a malapena citati. Anche perché si ritiene che nella loro riflessione teologica abbiano usato le categorie del pensiero occidentale. È stato un ciclo che si è chiuso. Ora, il ciclo nuovo che timidamente si sta aprendo è quello di una teologia che parte dalle tradizioni africane, ad esempio rileggendo la Bibbia nel modo in cui tramandiamo i nostri racconti. L’atteggiamento non è più quello di “purificare” la cultura africana, ma di capirla e di servirsene per rileggere Cristo, i sacramenti, Dio, il nostro modo di vivere». Ma quali sono oggi i grandi temi e le grandi sfide della Chiesa in Africa? «La prima, può sembrare banale, ma forse è la più importante, è la sfida economica. Apprezziamo la generosità di una madre che ci ha nutriti, ma è arrivato il momento dello svezzamento. È una fase delicata sia per il “bambino”, che per la stessa “madre”. Ma questo processo deve avvenire nella pace per evitare inutili traumatismi. Personalmente sono ottimista. Vedo nascere tante cose, vedo che stiamo diventando molto inventivi. E vedo che la Chiesa africana cresce in fretta, non solo nei numeri. E comunque credo che non abbiamo scelta. Solo se non si dipende da altri, solo se si è autonomi, si diventa anche capaci di produrre un proprio pensiero». Su che temi in particolare? «Penso che l’Africa possa finalmente dire come vuole vivere il cristianesimo. Ci sono dei segnali. Ad esempio, i temi della stregoneria o della poligamia non li abbiamo ancora trattati approfonditamente in uno spirito cristiano africano, usando i nostri schemi, le nostre categorie. Non è il caso, invece, per la questione della benedizione delle coppie omosessuali, che in Africa è vissuta come un tema marginale, peggio, come una cosa imposta da altrove. Solo se la Chiesa d’Africa saprà affrontare sfide e priorità che sente più sue e più urgenti, il cristianesimo africano avrà finalmente un proprio volto e darà il suo contributo al patrimonio del cristianesimo universale». È quello che sta già accadendo con il Sinodo sulla Sinodalità? «L’Africa è il continente che probabilmente ha vissuto più intensamente questo percorso:w ci crede molto, anche perché corrisponde ai modi di funzionare delle nostre società, che hanno al centro la parola. Si parla e si va avanti piano piano. Tutti parlano. E il capo non parla mai solo a nome suo. Quando lo fa, è perché tutti gli altri hanno già parlato. C’è già un forte senso di sinodalità nelle nostre comunità». E i giovani come vivono la loro appartenenza alla Chiesa? In molti contesti, anche africani, sembra che a un certo punto della loro vita se ne allontanino, che non trovino più stimoli per la loro fede e la loro esistenza… «È difficile generalizzare. Vediamo molti giovani che scoprono la fede cristiana quando dai villaggi arrivano in città o in università, dove incontrano qualcuno che è cristiano. Per alcuni la Chiesa è sinonimo di “modernità” e di tutto ciò che il mondo occidentale rappresenta. Ma noi non “vendiamo” la modernità, noi annunciamo Gesù Cristo, un   L'articolo Per un cristianesimo africano sembra essere il primo su Mondo e Missione.
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